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Critiche
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2009
Multiforme ingegno
di Nicola Davide Angerame
Chi e' Dario Ballantini? Di primo acchito, il Ballantini “pubblico” e' colui che appartiene e che sta mantenendo viva quella tradizione che va da Ettore e Petrolini a Alighiero Noschese e arriva per vie traverse fino a tangere i trasformismi di un Paolo Poli o un Arturo Brachetti. Ballantini appartiene al novero di quelle maschere che si privano del proprio volto per affermare un diritto, la polimorfia, e conquistare un territorio piu' vasto della semplice identita'. Si presenta sulla scena armato di tutto punto, ora Rossi, poi Vasco oppure Morandi, ma e' in fondo il volto inquieto di un senza patria, un'identita polimorfa che inneggia, inerpicato sulle barricate dell'esistenza, al “diritto di satira” e al gusto dell'essere altro da se', facendo esplodere i confini personali per rivendicare il diritto a calarsi nei panni altrui. “Mettiti nei miei panni”, si dice cercando di ottenere comprensione da chi non puo' davvero offrirla, da quell'Altro da me la cui alterita' e' un limite che si sposta ogni qual volta si pensa di averlo raggiunto e risolto. Dario Ballantini ci prova a modo suo, attuando una strategia che e' quella del giullare: dire la verita' scherzando. Assorbe e restituisce con garbo e ferocia, improvvisando una serie di interiorita' fatte di tic, di vezzi e di dettagli visivi (una ruga, un bitorzolo, ecc.), il personaggio che assume esaltando alcuni aspetti della sua “natura” che lo cristallizzano e ne offrono una chiave di lettura che ha a che fare con la verita'; Ballantini e' un Giano bifronte, ma al quadrato, poiche' la sua stessa identita' e' divisa in due: quella che vive sul palcoscenico, il personaggio “pubblico”, e colui che prospera nello studio d'artista, il personaggio “privato”. Incarnazione di un dualismo senza frontiere che si nutre, forse, di una mancanza originaria. Non quella psicologica attribuibile alla storia personale di ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, ma la mancanza metafisica di una pienezza che pertiene soltanto al divino, a colui che e' tutti i volti, come insegna la scena finale del Siddartha di Hermann Hesse. Ballantini, lo immagino come il Buddha dell'illuminazione del finale hessiano: seduto ai bordi del fiume, vede finalmente le acque diventare milioni di volti che scorrono senza soluzione di continuita'. Quando descrive la propria ossessione per i volti, in mostra ben rappresentata dai diari scolastici colmi di ritratti eseguiti gli uni sugli altri, Ballantini si avvicina a quella visione, a quella illuminazione. Ma Ballantini possiede una natura piu' tormentata e umbratile. La sua pittura, sempre inquieta e sperimentale lo porta ad avvicinarsi all'arte informale, gestuale e brutale di Pollock come di Dubuffet, degli espressionisti tedeschi come dei fauvisti del primo Novecento. Come l'Eros del mito platonico, egli dimostra (sia come trasformista e sia come pittore) di essere figlio di Poros e Penia, di abbondanza e di poverta' intesa nel senso di “mancanza”. La sua sfida all'esistenza parte da qui e consiste nel mantenere intatte le due dimensioni della propria genesi, accogliendo le istanze del trasformismo televisivo attraverso una sconsiderata abilita' metamorfica. Capace di diventare piu' vero del vero, mette in gioco il suo Io attraversando i territori sconosciuti e avventurosi di altre personalita'. Il suo ego e' “plurale”, si fonde e confonde, assumendo gli altri. Spettacolo e performance artistica si fondono nel momento in cui presenta, in un camerino ricostruito negli spazi della Triennale Bovisa, la preparazione dei personaggi e il momento della trasformazione, che appare come la rottura di un diaframma ritenuto invincibile, quello dell'identita'. Fateci caso, e' una cosa normale: quando qualcuno, fornito di un minimo talento, vi propone l'imitazione di un parente stralunato o di un collega antipatico, il momento della trasformazione della voce rappresenta un disorientamento, come se dentro di noi ci fosse una bussola che perde il nord, investita da un campo magnetico. Le coordinate del reale saltano via e la persona che hai di fronte non e' piu' lei; e' soltanto un momento, che presto si perde nel riso: lo sfogo divertito di un disagio. Quello per lo smarrimento del senso di realta'. Ballantini porta cio' alle estreme conseguenze. Diventa uno scienziato leonardesco, che studia in dettaglio le maschere che crea: dalle rughe di Gianni Morandi al "bitorzolo" di Nanni Moretti, tutto appartiene agli schizzi preparatori di un'arte che non mira piu' alla visione anticipata di gruppi scultorei, di grandi affreschi, di pale d'altare, di edifici imponenti. A meno che non si voglia confrontare (ed e' possibile anche se puo' apparire blasfemo) il suo studio del volto, del corpo, delle movenze del personaggio con gli schizzi leonardeschi o con gli imponenti plastici di edifici sacri barocchi. Dario Ballantini non si limita ad imitare ma edifica una copia; e' un attore noschesiano e petrolinesco che si e' alleato con la televisione satirico-giornalistica inventata da Antonio Ricci per generare, a modo suo, l'oltreuomo, colui che niccianamente “diventa cio' che e'”, all'interno di un paradosso evidente, forse figlio dei nostri tempi. Devi trasformarti continuamente per essere davvero te stesso: i “barbari” di Alessandro Baricco ne sanno qualcosa. L'esortazione nicciana assume in Ballantini un'accezione parossistica, eppure di fronte a quelle maschere di verita', dal suo Vasco Rossi che canta con il vero Jovannotti al Franco Marini che passeggia col vero Franco Marini, un'eco di disincanto ammanta di se l'operato del trasformista. Il suo multiforme ingegno, come probabilmente lo avrebbe descritto Dante, e' una forza ctonia e vulcanica. La sua trasformazione ha a che fare con la nostra “elevazione spirituale” e con il senso di riscatto dei vinti. Travestendo se stesso da politico, da stilista, da regista, da vaporosa donna in carriera, da industriale, da cantante o da motociclista, Ballantini ci fa amare personaggi famosi che sono i padroni del video e per questo motivo anche della parola. Lui e' il nostro inviato speciale mandato ad abbattere la barriera sociale che separa il potere del carisma da chi questo carisma non lo possiede. Le masse borghesi trovano in Ballantini il loro moderno giullare, colui che dice "il re e' nudo" a telespettatori in preda alle fascinazioni della sua multiforme identita'. Un incursore che abbatte l'aura del potere, del carisma e del successo. E la pittura? Ecco il volto di Penia, della mancanza metafisico-esistenziale di una finitudine che e' un buco nell'essere. Ed e' questo buco a formare l'occhio del ciclone, il perno di un vorticare che e' reso possibile proprio dallo spazio aperto dalla mancanza, dal vuoto di senso. Questo difettare che fonda la possibilita' di una ricchezza vasta e spregiudicata di identita', Ballantini la ritrae dipingendo sempre il medesimo volto anonimo, variazione di un tema visivo che assume i contorni neutrali di una maschera; quella dell'uomo comune, dell'uomo qualunque, quale tutti noi siamo al limite estremo della democrazia moderna. Ecco allora emergere il tratto socio-politico di una tale pittura che a prima vista pare squisitamente espressiva ed espressionista, per stessa ammissione del suo autore. Ma siccome la storia della cultura si basa sulle interpretazioni che i coevi ed i posteri offrono “contro” le intenzioni dell'autore (un principio caro a tutta la filosofia ermeneutica) allora e' possibile forse interpretare le due identita' di Ballantini contro il suo stesso voler essere. Spingendo il commento in una regione in cui la supposizione e' legittima e l'esegesi non si distingue dall'apologia. Dire che Ballantini usa la pittura come originaria e per tenere aperto quello spazio in cui puo' scatenarsi il vortice delle identita' televisive, significa teorizzare una dualita' organica, una dissociazione dell'Io creativo funzionale al raggiungimento di uno scopo socio-politico che (per quanto possa essere piu' o meno volontario) individua nell'arte doppia di Ballantini una via verso la costruzione di una identita' collettiva che si riconosca nello sbertucciamento mediatico, che comunichi un senso condiviso nella risata liberatoria. Ballantini parla di se' per dare voce a noi e la sua pittura e' come il lavorio notturno del sogno, come la sistemazione infinita dei dati dell'inconscio, come la lacrima di Pierrot Lunaire dietro la maschera del clown. Dipingere rappresenta per il nostro inviato, chiamato a decostruire l'aura dei vip, il costante esercizio di umilta' esistenziale. "La televisione passa, il quadro resta". Ballantini lo dice convinto. A meno che la talevisione non divenga arte straordinaria e fantasmatica per il tempo di una mostra, come in questo caso. La sua consapevolezza si puo' anche interpretare cosi': la celebrita' e il potere passano, ma quel terribile lato umano che ci portiamo addosso, quello resta. E quel lato puo' solo essere dipinto, poiche' e' nella pittura che si concentrano elementi di verita' altrimenti inattingibili.